Redacción •  Cultura •  09/02/2022

El Naufragio de la Humanidad de Kintto Lucas en edición italiana

La edición italiana del poemario «El Naufragio de la Humanidad», publicada por Left, ya está en los quioscos y librerías de Italia. Además de contener más poemas que la primera y segunda edición en castellano, tiene un prólogo de la poeta uruguaya Claudia Magliano y una introducción del escritor italiano Giovanni Dozzini. La co-traducción frevistaue de Gabriela Pereyra y Francesco Troccoli. Compartimos portada, contraportada y la introducción de Dozzini.

El Naufragio de la Humanidad de Kintto Lucas en edición italiana

Introduzione di Giovanni Dozzini *

L’umanità sta naufragando, ma il naufragio è iniziato insieme al viaggio. I poeti hanno sempre osservato, da vicino o da lontano, ed è a loro che dobbiamo perlomeno l’impressione di saper riconoscere il sapore dei flutti. Kintto Lucas è un poeta del presente, intriso di presente, ha il presente negli occhi e in bocca, e sulla pelle. Non è un reduce, Kintto Lucas non è Ismaele, e Kintto Lucas non è un veggente, non è nemmeno Cassandra. Vede e ascolta il mondo, non sa spiegarlo, ma cerca e trova le parole per testimoniare. A cosa serve la sua poesia, a cosa serve la poesia? Questo è un mistero, e Lucas lo sa e lo va ripetendo, nei suoi versi liberi e nelle sue prose da poeta.

Il naufragio dell’umanità è il titolo di questa raccolta uscita per la prima volta nel 2017, una raccolta che inevitabilmente non può e non potrà mai essere definitiva. È un libro che cresce, questo, perché a crescere ogni giorno è il presente, possiamo in effetti leggerlo come un diario in forma di poesia, una collezione di dispacci, un bollettino letterario. Un monito, certo: ciò che Kintto Lucas capisce del mondo è che il mondo così com’è fatto dagli uomini non gli piace, e non dovrebbe piacere a nessuno. Perché a non piacergli è l’ingiustizia, e il mondo è ingiusto. Non tutti i poeti sono così, non tutti sono stati così. Ma Lucas non è un poeta che annega nell’animo umano, è un poeta che l’animo umano lo sferza, lo prende per i capelli, e gli sbatte addosso la realtà e gli chiede di darsi una mossa, di svegliarsi, di spalancare gli occhi.

Le immagini evocate nelle sue poesie sono immagini mainstream. Massmediatiche. In questo senso è un artista pop: quando scrive i suoi lamenti in morte di Alan Kurdi, quando inchioda le corporation americane, quando cita Trump o si batte il petto di fronte ai volti di Ernesto Che Guevara finiti sulle t-shirt: “perché tutti noi uccidiamo il Che e continuiamo ad ucciderlo, e ora il Che è una t-shirt, una canzone mal cantata in un raduno”. È pop anche nella misura in cui dialoga con i fantasmi di Federico García Lorca e Fernando Pessoa, poeti enormi del Novecento e ormai divenuti iconici, o se al presente mescola l’epica greca e quella cattolica, o se prende Don Chisciotte e Sancho Panza e prova a farne strumenti per scandagliare le acque torbide in cui il naufragio si sta compiendo oggi. Come ogni artista pop, Kintto Lucas è in grado di rivolgersi a chiunque. E in questo sta la sua potenza.

È un bene insomma che Kintto Lucas si legga, che questo libro finisca in mani anche insospettabili. A cosa serve la poesia? Non possiamo saperlo, per i poeti è un tarlo, per Lucas è un tarlo. Ma l’animo umano ha bisogno di esser preso per i capelli, dalla notte dei tempi, da quando l’uomo ha avuto l’istinto di raccontare, che è ciò che l’ha reso uomo più e prima di ogni altra cosa. Quindi le scarpe nuove di Alan Kurdi, che abbiamo visto un milione di volte su uno schermo o sulla carta stampata, e che un milione di volte c’hanno trafitto come punteruoli affilati e roventi, nelle poesie di Lucas diventano qualcosa di meno doloroso ma più autentico. La retorica prêt-à-porter qui è superate ed elaborata, come succede con l’arte. “Un bambino non indossa le scarpe migliori per morire nel mare”. E invece sì. È un orlo paradossale, quello su cui Lucas si muove, e il paradosso sta innanzitutto nell’interrogativo che non riesce a smettere di risuonargli in testa: a cosa serve la poesia, a cosa potrebbe mai servire? “Questa poesia non è una chiave, né un’ala, né un’onda, questa poesia è inutile, non divente nemmeno una bottiglia nel mare…”. “Zaatari e Azraq sono laboratori umani ai confini del capitalismo. Non è poetico, ma è la verità. Che importa la poesia in queste strade?”. Eppure importa. In qualche modo importa. E Kintto Lucas, naturalmente, sa anche questo.

Nel campionario mobile di ingiustizie del Naufragio dell’umanità l’ingiustizia più grande è la tragedia delle migrazioni. Tragiche e inevitabili da sempre, anch’esse, ma provvidenziali. Senza le donne e gli uomini che nella storia dell’umanità hanno cambiato casa e strada, l’umanità non sarebbe qui. Anche perché queste donne e questi uomini serbano in sé più fiducia nel futuro di quanta forse non facciamo noi che siamo nati e cresciuti dalla parte grassa del mondo. La loro è la tragedia degli avventurieri e dei fiduciosi, non dei disperati. Nel Mediterraneo, lungo gli sterrati dell’America Latina e dell’Africa, sulle rotte europee a Est, dappertutto. Kintto Lucas li canta, canta contro i muri, contro i fili spinati e contro le prigioni, contro i mulini a vento e contro l’arroganza e la stupidità di chi quei muri, quei fili, quelle prigioni e quei mulini li costruisce credendosi così al riparo dalla determinazione e dal bisogno e dalla sete di futuro di chi ha deciso di partire, di andare, e di arrivare.

In questo libro che inizia con le scarpe nuove di Alan Kurdi ci si muove poi molto nello spazio e nel tempo, pur rimanendo invariabilmente ancorati all’ora e qui. L’ora e qui è la costante per tutti, d’altronde, la connessione e la frenesia perenni ce la impongono, Kintto Lucas si prende in carico questa condizione e ne fa ottimo uso per la sua poesia. In coda c’è spazio anche per l’incubo della pandemia, e per una prosa splendida sul disincanto, sul naufragio connaturato all’idea stessa di viaggio, sull’uomo smarritosi come non sarebbe potuto essere altrimenti. Per la frustrazione di non sentirsi d’aiuto, da poeta o da uomo di qualsiasi altro genere, nel naufragio. “Se mai morirò sarà di tristezza […] per tante sconfitta e qualche vittoria, di tristezza per chi fugge dalla propria terra e per chi non ha terra; di tristezza per i bambini che crescono invece di essere bambini; di tristezza per coloro che credono che un dio li libererà dalla tristezza”.

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* Giovani Dozzini è giornalista e traduttore, suoi articoli sono stati pubblicati su Europa, Huffington Post Italia, Pagina99, OndaRock. Ha diversi romanzi tra cui: Il cinese della piazza del pino (Midgard 2005), L’uomo che manca (Lantana 2011), La scelta (Nutrimenti 2016), E Baboucar guidava la fila (minimum fax, 2018). È tra gli organizzatori del festival di letteratura in lingua spagnola Encuentro di Perugia.